Il consenso popolare la 'ndrangheta lo cercava anche attraverso le squadre di calcio. I Pesce ne avevano due in serie D. Il Sapri Calcio in provincia di Salerno, e la Rosarnese nella Piana di Gioia Tauro. Della squadra campana erano soci occulti, di quella calabrese invece uno di loro era apertamente il presidente onorario, oltre che il padrone di fatto. Questa mattina le due società sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria, su ordine del Tribunale che ha accolto una richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Assieme ai due club, e a un complesso sportivo (con tre campi di calcio e relative attrezzature), nell'elenco dei patrimoni sigillati in Calabria, Lombardia, Campania e Lazio, ci sono beni per 190 milioni di euro.
I finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria reggino e dello Scico di Roma, sono intervenuti per mettere i sigilli a 40 imprese e al loro patrimonio aziendale, a 44 appartamenti, 4 ville, 12 autorimesse, 60 terreni, 56 auto e 108 camion. Un impero economico riconducibile a diverse articolazioni mafiose di un unico clan. I Pesce, appunto, avevano il controllo diretto o indiretto di gran parte delle attività imprenditoriali del loro territorio. Erano padroni del settore della grande e piccola distribuzione (dagli agrumi ai supermercati Sisa), ma gestivano anche attività commerciali minori, come i distributori di benzina e le imprese edili.
Secondo la richiesta di sequestro firmata dal procuratore Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dal sostituto Alessandra Cerreti, tutti i beni sono riconducibili a Francesco Pesce (detto "Testuni") e ai suoi familiari. Un personaggio considerato il più violento tra i rampolli del gruppo criminale ed erede del patriarca Antonio (ergastolano, detenuto da diversi anni). Un giovane boss alla guida di un esercito assieme ai cognati, gli zii Giuseppe e Vincenzo e a diversi cugini. L'operazione portata a termine dagli uomini del comandate della Finanza Alberto Reda, muove dall'indagine "All Inside" dei carabinieri, che nei mesi scorsi portò all'arresto di decine di affiliati della cosca.
Dopo le manette, ed un primo sequestro da 7 milioni di euro, questa mattina la Dda ha colpito il vero e proprio forziere del clan. Una cassa forte ricca in termini di capacità finanziaria, ma anche importante per il consenso che ne derivava. I Pesce sul loro territorio, infatti, stabilivano chi doveva lavorare, come e dove. Quali aziende (soprattutto le loro, ma non solo) dovevano proliferare e quali invece inevitabilmente erano destinate al fallimento. Nessuna legge di mercato, nessuna concorrenza era consentita nella loro zona, al punto che, dicono dalla Guardia di Finanza, "solo oggi possiamo dire che Rosarno è libera". Nei giorni scorsi, è iniziato il maxi processo contro 70 tra boss e affiliati dei Pesce. In udienza preliminare si sono costituiti parte civile il Ministero dell'Interno, la Regione e il Comune. Mancano tuttavia all'appello alcuni degli esponenti di vertice della "famiglia". Sono infatti latitanti il "reggente" Francesco Pesce e il cugino Marcello, considerati le giovani menti della cosca.